Il 16 dicembre scorso pubblicavo su questo blog un post dal titolo La “credibilità” dell’informazione in Italia e il “servizio pubblico”. Il post è stato letto da circa 600 persone e ha suscitato commenti di vario segno. Mi è arrivato anche il commento del prof. Andrea Melodia, presidente dell’UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana). Lo riporto qui di seguito, ringraziandone vivamente l’autore per il contributo alla riflessione.

Concordo nella sostanza, ma mi premono alcuni distinguo. Il “mestiere” di giornalista (e uso questo termine per indicare una qualificazione professionale) sempre meno ha senso nella società postmoderna se non garantisce alti livelli di qualità percepita, che è il risultato di una serie di relazioni che oggi si alimentano sia attraverso i media tradizionali, sia attraverso quelli offerti dal web 2.0. Sia attraverso il broadcasting, sia lo sharing. Il fatto che ogni cittadino, minori compresi, sia divenuto potenziale fonte di informazioni, in qualche caso esclusive e con capacità testimoniali spesso superiori a quelle dell’informatore di mestiere, favorisce l’estromissione dal mercato delle fasce qualitativamente medio-basse della professione. La competenza nei linguaggi e nelle loro interazioni, oltre alla competenza nelle materie trattate, costituiscono peraltro condizioni di qualità oggettiva, anche se difficilmente misurabile, che andrebbe sommata alla qualità percepita relazionalmente.

Un problema molto serio si pone di fronte alla questione del consenso. Chi come me viene da una esperienza televisiva generalista difficilmente potrà a pensare che abbia senso una qualità senza ascolti, ma altrettanto bene si rende conto che oggi gli ascolti sembrano opporsi alla qualità. So bene come si possa intervenire sugli ascolti di un telegiornale, minuto per minuto, privilegiando non la rilevanza delle notizie ma la loro irrazionale popolarità. Ma fatico a credere che un sistema relazionale in rete possa garantire maggiore equilibrio. Mi pare che anche qui le manipolazioni siano dietro l’angolo: il mio sistema relazionale sul web sarà sempre più soggetto al controllo, al tracciamento delle preferenze, alla esclusione o all’inclusione in base ad algoritmi segreti e incontrollabili. Il “page rank” di Google perde la sua democratica trasparenza e si sottomette agli interessi dell’investitore pubblicitario, che si garantisce i primi posti nelle risposte. E si tratta di manipolazioni e interferenze poco percepite. Per la pubblicità televisiva e stampata vige l’obbligo di jingle e scritte: e sul web?

Oltre l’indubbia rilevanza dei nuovi modelli comunicativi, che certamente impongono un adeguamento culturale e che introducono elementi di complicazione e nei sistemi informativi e comunicativi dei quali cominciamo appena a conoscere gli effetti, credo sarebbe sbagliato affidare fideisticamente ai nuovi media capacità autonoma di correggere le distorsioni. Essi forniscono certo nuovi strumenti di controllo in mano a tutti i cittadini, ma nessuno garantisce che se ne faccia buon uso. Voglio dire che i vecchi e i nuovi media soffrono dello stesso antico limite: sono strumenti che si possono usare bene o male, secondo le competenze e la rettitudine, e anche secondo le regole che la politica impone loro (o quelle che dovrebbero essere imposte e non lo sono). Inoltre vecchi e nuovi media sono del tutto interconnessi, e i nuovi non cancellano i vecchi: le informazioni sul web provengono ancora in quantità molto significative dalle redazioni dei giornali, e le immagini di origine televisiva sono di casa sul web. Dunque da queste interazioni, da questa complessità, dobbiamo partire per ricostruire un intervento a favore della qualità.

In questo senso credo abbia senso ancora parlare di “servizio al pubblico”, anche – ma non solo – per l’informazione giornalistica. Si tratta solo di prendere atto che il “mestiere” si giustifica se è “popolare” – cioè accessibile a molti, qualche volta a tutti secondo l’antico modello del servizio universale – e, insieme, se è aperto al controllo, alla trasparenza, alla verifica anche interattiva, e capace di fornire le giustificazioni, il percorso e il metodo della sua costruzione. Sempre più una informazione “in diretta” (broadcasting e sharing in questo sono appaiati) e quindi sempre più sottoposta allo stress temporale. Una delle prime cose da imparare e che è meglio arrivare secondi che raccontare panzane.

Dunque un giornalismo per essere credibile deve certamente aprirsi sempre più alla partecipazione e al controllo, e così rafforzerà il suo carattere di servizio, di utilità al pubblico. Ma la competenza professionale, tematica e linguistica, restano esigenze prioritarie; libertà, anche dalle ideologie, e rette intenzioni realizzate attraverso una linea editoriale, sono condizioni essenziali all’esito qualitativo. E il lavoro giornalistico non è né monastico né solitario: è un lavoro di gruppo, e la sua credibilità, spesso anche sul web, attiene non solo alla singola firma ma anche alla compagine di lavoro.

Concludo moralisticamente: in questi giorni si parla molto di coesione sociale, che mi piacerebbe fosse un modo moderno per parlare di fratellanza, tolleranza, carità e amore. Forse per comunicare bene occorre cominciare da lì.

 

 

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