Riporto qui una intervista a cura di Alberto Friso che è apparsa sul Messaggero di Sant’Antonio del giugno 2012 col titolo “Antonio Spadaro. Abitare il continente digitale” (pp. 68-70).

Web, smartphone, tablet, app, social network, avatar e via dicendo. Per alcune persone queste parole sono pane quotidiano, per altre invece disegnano un mondo astruso, un parco giochi per il quale non si possiede ancora il biglietto d’ingresso. Padre Antonio Spadaro – gesuita, direttore de «La Civiltà Cattolica» e docente alla Pontificia Università Gregoriana – il biglietto per il continente digitale non solo ce l’ha, ma ne ha fatto anche un ottimo uso, diventando nel tempo uno dei più attenti esploratori di internet e dintorni, come testimonia da ultimo il suo Cyberteologia. Pensare il cristianesimo al tempo della rete (Vita e pensiero 2012).

Chi bazzica internet e la fede cristiana, o anche una sola delle due categorie, troverà pane per i suoi denti. Non a caso il libro ha trovato buona accoglienza dentro e fuori la Chiesa, grazie alla densità di pensiero che si accompagna a una felice chiarezza espositiva. Il testo poi è zeppo di punti interrogativi, ma non è una questione di stile o di retorica: sono domande aperte alle quali l’autore contribuisce a rispondere, senza mai mettere un punto fermo definitivo. A questa selva di interrogativi ne abbiamo aggiunti alcuni altri, rivolti direttamente a padre Spadaro, per saggiare il terreno del digitale con l’occhio del credente.

Msa. Lei insiste molto nel dire che la Rete «non è uno strumento, ma un “ambiente” nel quale noi viviamo». Quali sono le conseguenze?

Spadaro. Le conseguenze sono enormi, perché si tratta di definire ciò di cui stiamo parlando. Nel momento in cui consideriamo internet uno strumento, sottolineiamo solo l’aspetto utilitaristico. La Rete invece è un ambiente, è l’aria che respiriamo, fa parte della nostra vita ordinaria, e ci chiama a uno stile di presenza anziché di uso.

Quali sono le ricadute per quanto riguarda la Chiesa?

La Chiesa non è impreparata in proposito, anzi, ha recepito la rivoluzione digitale. Non è, come molti credono, retrograda su questi argomenti: c’è attenzione e una piena consapevolezza dell’importanza di internet. Penso agli ultimi messaggi per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali: Benedetto XVI descrive con grande chiarezza la Rete come ambiente da vivere, anziché come mezzo utilitaristico. Le conseguenze di questo modo di pensare, poi, sono molteplici.

Per la Chiesa nel web è preferibile costruire cattedrali o frequentare i crocicchi delle strade? Qual è lo stile corretto?

Non farei una distinzione troppo netta, escludendo l’una o l’altra modalità. L’unica modalità di presenza da escludere, a livello di logica, è quella della propaganda ideologica. Non si tratta di vivere nei crocicchi, nei nodi e basta, opponendo forme di presenza tra di loro. Il discorso è più complesso. La differenza consiste nel modo in cui si trasmettono i contenuti. Nella Rete così come la conosciamo, un messaggio passa non per trasmissione, o broadcasting, come avviene in televisione o in radio, dove un’emittente invia informazioni a riceventi fissati a priori, ma per condivisione, o sharing. Il modello è quello dei social network. Significa che i contenuti passano attraverso le relazioni e, viceversa, che senza relazioni efficaci i contenuti non passano. L’ha detto molto bene il Papa nel messaggio per la Giornata delle comunicazioni sociali del 2011: nel momento in cui si è presenti nelle reti sociali, automaticamente si è testimoni di qualcosa, dei propri valori e della propria visione delle cose.

Spaventa allo stesso tempo giornalisti e sacerdoti la sparizione dei pulpiti nel web. Ogni contenuto è esposto a commenti. È come se durante un’omelia l’uditorio – composto da cristiani e pagani, a favore e ostili, preparati e ignoranti – potesse pubblicare in tempo reale una sorta di «giornale murale» direttamente sull’ambone.

È così, ed è un’altra grossa sfida. Si va sviluppando sempre più la dimensione interattiva. Un messaggio passa se si interagisce col messaggio stesso. La logica dell’approfondimento una volta coincideva esclusivamente con l’interiorizzazione dei contenuti, invece oggi si fa sempre più presente l’interazione con i contenuti.

Tuttavia non si potrà prescindere, per una vera conoscenza, dall’approfondimento.

Assolutamente. Ma cambiano le modalità. La parola stessa «approfondimento», andare in profondità, non ci aiuta a capire quanto sta accadendo oggi, perché siamo abituati a contrapporla a superficialità, all’orizzontale. Invece nel digitale prevale una forma di «approfondimento orizzontale», che consiste nel legare tra di loro cose disparate, creare nodi tra le realtà, infittire la capacità di relazione tra le cose. La profondità consiste allora solo nel riconoscere che le cose sono più connesse di quanto si immagini, ma restano orizzontali, tutte sullo stesso piano.

Leggo ancora nel suo libro: «La Rete, di sua natura, è fondata sui link, cioè sui collegamenti reticolari, orizzontali e non gerarchici». Non esiste un centro del web. Al limite esistono luoghi di maggior successo o più visitati o più influenti. Ma la Chiesa vive di un’altra logica, con un messaggio donato dall’alto, in una dimensione verticale evidente. C’è spazio per la verticalità in internet?

Questo, secondo me, è proprio uno dei compiti della Chiesa, ovvero far comprendere come non tutto è materiale scambiabile che nasce dal basso. C’è una dimensione di dono – e la rivelazione di Gesù è un dono indeducibile – che vive di un’altra logica, di un incontro personale che nel libro descrivo come face to face, faccia a faccia e non, come invece avviene in Rete, peer to peer, ovvero in un orizzonte di scambio, se non di baratto. Il faccia a faccia, inoltre, non è mai anonimo, ma sempre individuale. La dimensione verticale evoca poi anche il principio di autorità che, nonostante possa non sembrare così, in fondo è sempre presente in internet, ma in forme diverse da come ce le aspetteremmo.

Anche più nascoste.

Infatti, come succede con i motori di ricerca, dove in evidenza troviamo gli elementi più popolari. In questo caso l’autorità rischia di coincidere con il populismo. Gli stessi hacker sono d’accordo sul non spazzare via qualsiasi forma di autorità da internet. Ne andrebbe di qualsiasi forma di educazione, o di relazione genitoriale. Sono tutte sfide non indifferenti, da affrontare con lucidità e coraggio, cercando di svelare i trucchi e i luoghi comuni.

Cosa intende dire quando sostiene che «sempre di più internet contribuisce a costruire l’identità religiosa delle persone»?

La Rete fa ormai parte della nostra vita quotidiana, quindi ha un impatto sul modo in cui le persone si relazionano tra loro, conoscono e pensano la realtà. In tutto ciò è compresa anche la dimensione religiosa, il modo di vivere le relazioni ecclesiali e di pensare la fede.

È un dato di fatto molto pratico: in tanti si rivolgono alla Rete per avere risposte di ordine religioso. Ci sono molti siti sul credere, e i social network pullulano di profili di significato religioso.

Allo stesso tempo, però, definisce «un’illusione» il pensare «che il sacro e il religioso siano a portata di mouse».

Questo anche perché bisogna comprendere che il Vangelo non è una risposta pronta a una serie di domande, o un messaggio come tanti altri. Il Vangelo è sempre una risposta impegnativa, che non può essere svenduta a basso prezzo. Una religiosità autentica in Rete deve quindi assumere uno stile anche reticente, capace di fare silenzio, di non dare risposte a tutti gli interrogativi. Semmai il compito è aiutare le persone a porsi le domande giuste.

Gianni Riotta, alla presentazione di Cyberteologia al Salone del libro di Torino, ha sostenuto che «on line c’è tutta la verità». Ma per quanto vasto sia, il mondo digitale è molto più limitato del non tecnologico. Ad esempio, elimina in un sol colpo tre dei cinque sensi, ovvero l’odorato, il gusto e per buona parte il tatto.

L’obiezione la riconosco ed è corretta, ma parte da un presupposto sbagliato, cioè che la Rete sia tutto: internet invece non è la sostituzione della vita. Uno dei compiti della Chiesa è proprio dire qual è la vocazione della Rete. L’obiettivo è vivere bene al tempo della Rete. Ecco un esempio: quando parliamo di «amicizia» su Facebook cosa intendiamo? Quella su Facebook non è una vera amicizia, ma non è nemmeno nulla. È qualcosa di mezzo. Viviamo una forma di relazione per la quale non abbiamo ancora trovato un nome. La chiamiamo «amicizia» solo per praticità. Facebook non sarà mai la risposta al bisogno di amicizia dell’uomo, e tuttavia è un’opportunità che, se vissuta bene, può essere un aiuto a vivere rapporti più intensi.

Non vorrei avessimo dipinto solo i lati problematici della Rete, di cui lei è un entusiasta frequentatore. Quali aspetti la affascinano?

Sono quelli più tradizionali. Noi siamo attratti dalla novità di internet, ma in realtà la rivoluzione della Rete è una rivoluzione antica, perché risponde a desideri profondi che l’uomo ha sempre avuto, ovvero relazione e conoscenza. Mi affascina il fatto che internet sia un luogo dove la relazione può essere più costante e anche approfondita, e dove conoscenza e pensiero possono essere più facilmente condivisi.

Lei è attivo in numerosi social network. Da quali si attende uno sviluppo?

È un territorio molto mobile, in Rete nulla si crea e nulla si distrugge. Penso che tutto il panorama attuale sparirà prima o poi, non perché morirà, ma perché si evolverà, assumendo ciò che è avvenuto nel passato per portarlo a un livello ulteriore. Ciò che mi colpisce in generale, comunque, è il fenomeno del social networking e le sue criticità, come la questione della privacy e della proprietà dei contenuti. A livello di tendenze, dopo la grande ubriacatura di Facebook, secondo me, emergeranno con forza i network sociali più di base, come è il caso di Timu o di Shinynote, nati con obiettivi precisi: promuovere comunità di quartiere, o una cittadinanza diversa, legata alla solidarietà.

Infine: il suo onomastico cade il giorno…

Il 13 giugno, ci mancherebbe! Amo moltissimo il mio Santo, grande dottore della Chiesa. Sono affascinato dai suoi Sermoni, nei quali dimostra la sua incredibile capacità di cogliere intuizioni spirituali a partire da dati concreti, come oggetti ed elementi della natura, elaborando splendide metafore di significato teologico. Sant’Antonio aveva un’incredibile capacità comunicativa.

 

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