Riporto qui una breve intervista ad Antonella Viale apparsa sul Il Secolo XIX venerdì 11 maggio 2012

Torino – Il Salone del Libro arriva al web con flemma, quando i giochi sono fatti. La Chiesa cattolica invece, spesso tacciata di arretratezza, è già capace di immergersi nella fluidità della rete e di viverla.

Questo è il nocciolo attorno a cui Antonio Spadaro, 45 anni, gesuita, filosofo, teologo, critico letterario, ha costruito la Cyberteologia. Spadaro è direttore di La Civiltà Cattolica, consultore del Pontificio consiglio della cultura e di quello delle comunicazioni sociali. Per lui il web non è un mezzo di evangelizzazione, ma un ambiente dove vivere anche la fede.

Il concetto di rete come ambiente è tutt’altro che ovvio e porta in sé timori confessati solo a mezza voce dalle generazioni che hanno imparato a conviverci: privacy, identità false, distacco dalla realtà. Il teologo naturalmente è su Facebook e Twitter, ma per capire il suo percorso è cruciale tanto il sito cyberteologia.it quanto il saggio “Cyberteologia, pensare la fede al tempo della rete” (Vita e pensiero, 150 pagine 14 euro).

In rete si scarta dall’esistenza reale, quindi è pericoloso? «Sì. L’allontanamento dal vissuto è un rischio, ma presuppone che l’esistenza online sia completamente distaccata da quella offline. Invece la rete pone la sfida dell’integrazione: è sempre più un contesto esistenziale che si integra con l’esistenza. Ormai è impossibile definire l’ambiente off e quello on line, basta avere uno smartphone. La rete è un rischio solo se viene vissuta come contesto alienante».

Però sul web c’è di tutto, dal porno alla pedofilia, al terrorismo. «È in gioco la libertà dell’uomo. Se in rete può esserci il male significa che può esserci anche il bene. Come per il discorso della dipendenza: se è in gioco la libertà dell’uomo, lo è anche la sua spiritualità. Del resto vale anche per la stampa: si possono pubblicare Bibbie come inviti alla violenza. Sta a noi scegliere. Se la rete è vissuta in modo virtuoso non crea dipendenza, ma integrazione».

Come fanno i nativi digitali? «Sì, non usano logiche necessariamente sequenziali ma architettoniche: link dopo link non è come pagina dopo pagina, va in profondità. Sembra che la rete non abbia gerarchie invece ne ha, la più ovvia è la popolarità, si pensi ai risultati di Google, ma rischia di formare una mentalità non più abituata a forme di autorevolezza: è affidabile ciò che è popolare. E questo è un problema che può essere risolto solo dall’educazione a riconoscere il valore di cose e persone».

Per la Chiesa cosa cambia? «La Chiesa si sente sollecitata dal mondo della comunicazione. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si sono espressi in questo senso, non per volontà di potenza ma perché la Chiesa è chiamata a essere presente fra gli uomini. Se loro sono in Rete la Chiesa non può essere altrove».

Ma la rete è molto esigente.

«Un contenuto, un messaggio non si trasmette ma si condivide. Da qui l’idea che tutto ciò che è autorevole deve passare non come un contenuto astratto ma come una testimonianza viva dentro relazioni umane. Per noi è importante. Come consultore del Pontificio Consiglio delle comunicazioni confermo che l’impegno culturale ed educativo è davvero grande».

 

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