L’«informazione» oggi è un fenomeno molto articolato. In questa mia breve riflessione mi metto non dalla parte delle definizioni consolidate, ma provo a dare qualche indicazione sul magma che viviamo in un momento in cui la disponibilità di informazione sta crescendo in maniera esponenziale.

Credo che occorra almeno distinguere l’informazione «trasmessa» (broadcasting) e quella «condivisa» (sharing nei network sociali). I due contesti generano due visioni della credibilità che sono molto differenti. Nel caso del brodcasting la credibilità è tutta centrata sull’autorevolezza e l’attendibilità di chi trasmette, cioè la testata. Nello sharing questo concetto è più complesso perché l’informazione è tale solo se condivisa all’interno di rapporti «credibili» e autentici. Si dovrebbe meglio parlare di «affidabilità» che è un concetto molto più relazionale e partecipativo. Non solo: nella condivisione è la relazione stessa ad essere «informazione» trasmessa, come ha notato anche Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazionidel 2011.

L’evoluzione del mondo dell’informazione sta decisamente virando, sotto la pressione del web 2.0, in questa seconda direzione. Per cui ormai è raro trovare una testata che non permetta la condivisione dei contenuti su Facebook, Twitter e ad altre piattaforme simili. Dunque anche il brodcasting (e il giornalismo «tradizionale») vive bene se è aperto allo sharing. Almeno parte della valutazione della sua credibilità è affidata alle relazioni.

In questo sistema una fonte è giudicata credibile quanto più è condivisa. E’ la logica del page rank di Google, ad esempio, che ha reso il motore di ricerca così di successo. Essa pone in alto nei risultati non i siti più cliccati, pensì quelli più citati. Ma pensiamo anche a piattaforme come Digg: chi si registra può segnalare una notizia e poi gli altri utenti possono votare a favore o contro di essa se la ritengono interessante o meno. Le pagine più votate vanno sulla homepage nelle sue varie sezioni, che così diventa il giornale on line delle notizie giudicate dal «pubblico» più interessanti.

E così il concetto di «pubblico» rischia lo slittamento semantico in quello di «popolare». In questo quadro il «giornalismo di servizio pubblico» risulta un concetto da chiarire in radice, non univoco o capace di essere compreso secondo la visione classica e consolidata. Il «servizio», ad esempio, oggi non indica più un contenuto informativo, ma l’accesso a un canale. Sempre più grazie all’interattività dell’informazione sfumerà la figura dell’«utente».

Il citizen journalism, ad esempio, a molti oggi sembra la formula più appropriata di «giornalismo pubblico» perché partecipativa. E stanno sviluppandosi dunque piattaforme, come l’Huffington Post (che per contatti ha ormai battuto il New York Times con i suoi 35 milioni di contatti al mese) o l’italiano Il Post, che aggregano contenuti che provengono dal giornalismo non convenzionale. Ma anche giornali intesi come content curation service per cui il «direttore» diventa il curatore di contenuti condivisi da persone a suo avviso affidabili e di cui è «amico» o follower sui network sociali. Grazie alla possibilità di usare i tag (oltre alla scelta dei «giornalisti») la selezione delle notizie può essere anche molto accurata e specialistica. E’ per questo che tempo fa ho creato il mio The CyberTheology Daily (http://www.cyber-theology.net). E’ proprio la dimensione partecipativa il «fine sociale» oggi sempre più in evidenza.

E dunque, per quanto strano possa sembrare, è il «giornalismo partecipativo» ad essere sempre più percepito, specialmente dalle giovani generazioni, come forma di «servizio pubblico». In questo contesto la questione della «credibilità» allora confina e s-confina con quella della «qualità» dell’informazione. La ricchezza quantitativa dell’informazione pone problemi in termini di qualità, infatti. Il rischio è quello di considerare moralisticamente la situazione attuale evidenziando i rischi e dimenticando le opportunità. Ma il rischio è parte integrante dell’innovazione. In ogni caso oggi la qualità non si può più imporre esclusivamente a partire da una autorità culturale predefinita. Il pubblico sta uscendo da una posizione passiva e sta mettendo sotto pressione l’ecosistema mediatico. La credibilità va dunque continuamente verificata e legittimata in un contesto di relazioni, e dunque diviene «affidabilità»; l’autorevolezza «competenza»; e dunque il giornalista un «testimone competente e affidabile».

  1. Alessio jacona says:

    Nell’era in cui le informazioni abbondano, il bene che scarseggia è l’attezione. L’impossibilità di seguire tutto e la diffusione dei social network site, con i loro mille strumenti di pubblicazione, condivisione e rilancio, fanno sì che i nodi della nostra rete sociale online diventino – nel bene e nel male – anche i principali filtri delle informazioni che riceviamo, le lenti attraverso cui guardiamo una porzione del mondo.

    Alcuni dei nodi presenti nelle nostre reti sono più autorevoli di altri, forti di una credibilità che hanno dovuto guadagnare parola dopo parola pubblicata, interazione dopo interazione, con la forza delle loro idee e dei loro argomenti.

    Se hanno lavorato bene, tra questi “influencers” sono presenti anche giornalisti, finalmente in vista non per il “diritto ereditario” derivante dalla semplice appartenenza a qualche testata blasonata, ma in quanto personalità che si sono imposte a colpi di contenuti e professionalità.

    Credo tuttavia che il nodo della questione sia un altro: il grande “cultural shift”cui ci troviamo di fronte risiede nel fatto che, grazie alla rete, è finalmente nostra (di tutti noi) la responsabilità di trovare, selezionare, comprendere e riordinare le informazioni che possono interessarci. Lo è perchè ora abbiamo tutti i mezzi, tecnologici e culturali, per essere “editor” (nel senso anglosassone del termine) di noi stessi. Per uscire dal torpido ruolo di fruitori passivi di informazioni pre-cotte e digerite e prenderci la briga di scavare tra le notizie, verificare le fonti, confrontare le versioni, formarci un opinione.

    Magari anche con l’aiuto di fonti autorevoli o di professionisti dell’informazione; Ma senza più rinunciare al ruolo attivo, consapevole, partecipe e responsabilizzante che la nuova rete finalmente ci consente di assumere.

  2. raffaele ibba says:

    C’è un equivoco, a mio avviso, parzialmente risolto dalla bella fotografia di Orson Wells.
    L’equivoco è quello che sta alla radice della “credibilità”.
    Come si “fonda” la credibilità” di una persone.
    Dove si fonda “la credibilità” che un essere umano come Joseph Goebbels ebbe in quanto “ministro della propaganda” nazista.
    Soltanto nella risposta che Fritz Lang diede quando Goebbels gli disse che “gli ebrei li decidevano loro”. Uscire velocemente dalla Germania.
    Perché, a mio avviso, la notizia ha il suo valore soltanto nella “verità” di chi la trasmette.
    Ovvero: il suo valore di una notizia sta nel “buon senso” (Cartesio) di chi la riceve.
    Seguendo Cristo Gesù: la notizia ha il suo fondamento nella coerenza della mia vita con il Vangelo di Gesù Cristo, cosa che si capisce senza problemi.
    Senza bisogno di lauree e di culture speciali, il mai abbastanza citato Josef Mayr Nusser scelse Cristo Gesù.
    Il peso che “il giornalismo” o “il sistema dei media” ha acquisito ed ha come “valore” della notizia, è un frutto della crescita del mercato capitalista, per cui l’informazione (Orson Wells lo insegna ancora) è solo una merce, fungibile come e tra le altre.
    E quindi con il valore “informativo e critico” di tutte le merci fungibili (che c’è, ovviamente).
    Per questa ragione le recenti rivolte nell’Africa araba, come la rivolta del sud Sudan, si sono svolte in un clima comunicativo diverso da quelli “normali”.
    Perché hanno sfruttato reti comunicative sociali, esistenti cioè nelle realtà storico-sociali e linguistiche disponibili.
    La Rete telematica ed informatica è “una” di queste, non è “la” rete e la connessione comunicativa unica.
    Occorre trovarsi in piazza, o girato l’angolo, o in quelle strade dove la polizia non ci va mai, neppure di giorno. Occorre le reti di connessione reali, come i villaggi del sud Sudan o i quartieri e le piazze di Il Cairo o di Tunisi. Entrambi ed insieme, con la verità della “mia vita” nella credibilità della notizia. Sono “io”, anche io, che rendo credibile la notizia.
    Perché “Post” è un bel giornale?
    Non perché è autorevole, ma proprio perché si presenta con un’aria “non autorevole”, cioè non predeterminata politicamente e culturalmente.
    Anche se poi una “idea politica” complessivamente prevalente c’è, fra tutti i siti ed i blogger che il Post cita e propone.
    Ma non è, finalmente, una milizia combattente, né una “opinione autorevole”. È una possibilità di “discussione” e, quindi, di analisi.
    Ma si tratta di storia antica, per l’essere umano. Antichissima.
    Per questo la Rete è importante solo in quanto è una modifica quantitativa rilevante che implica, quindi, una modifica qualitativa altrettanto importante.
    Diventa “emotiva”.
    Ci provo: la crescita della quantità e della velocità e della possibilità delle “informazioni” scambiate tra persone e reti sociali è una modifica nella nozione stessa di “informazione” e lo dimostra il crescente uso solo “emotivo” – il termine sbagliato, ma non so trovarne un altro – della fotografia digitale in Rete.

    ciao
    r

  3. Luciano Giustini says:

    Ciao Antonio,
    ti faccio i complimenti per l’articolo come al solito lucido e scevro di qualsivoglia ideologia: osservatore attento ed esperto, sei sempre una fonte di interesse per chi si occupa della materia a livello professionale.

    Fatta la premessa, vorrei contribuire con due segnalazioni “critiche” (nella prospettiva aggiuntiva, e non demolitiva) rispetto alle tue considerazioni.

    La prima “critica” è che nell’articolo, se non ho capito male, tendi ad associare la metodologia introdotta dal page rank di Google con la sostanza della credibilità in rete. Ritengo che sia un errore dovuto non al significato che si dà di credibilità, ma alla struttura stessa della condivisione su Internet. Purtroppo, non c’è relazione sostanziale netta tra la popolarità che si raggiunge sulla rete, sui social network e sui motori di ricerca, e la credibilità – sempre che specifichiamo come credibilità quell’oggetto semantico che ha la capacità di dimostrare, in qualsiasi momento, che ogni affermazione corrisponde ad un fatto dimostrabile. Quello che c’è in rete, ed è importante e utile, è piuttosto un accumulo di “punteggio di affidabilità” che il lettore/editore concede ad alcune fonti, e questo punteggio viene acquisito con un parametro numerico: in altre parole, più persone condividono un pensiero o mostrano di apprezzarlo in forma sociale, quindi peraltro auto-influenzandosi a vicenda, più questo pensiero cresce come livello di affidabilità. Il che ci pone di fronte alla necessità di chiederci continuamente quanto l’opinione-pensiero sia corrispondente ai fatti e quanto invece se ne discosti: ed è il vecchio dilemma della stampa, separare le opinioni dai fatti, e purtroppo la rete non aiuta molto a risolverlo, in questo senso. Il citizen journalism è la forma più interessante di questo conflitto e la sua manifestazione più promettente, ma anche più pericolosa. La zona grigia tra opinione, volontà di dimostrare una tesi, e fatto in sé stesso rischia di diventare sempre più labile. E’ evidente che la soluzione di questo problema non è certo univoca, ma passa sicuramente per la responsabilità civica e personale dell’ editor-citizen che – sebbene inserito in un sistema di controllo più o meno esteso e qualificato – può alimentare una serie di falsità del cui percorso di “credibilità” difficilmente si può tenere traccia, specialmente se la loro popolarità tende a crescere. Pensiamo ad esempio ai complottisti, il primo argomento che mi viene in mente, ma si potrebbe – come immagini – continuare su molti altri fronti. Rischio che però diventa, come giustamente osservi, anche opportunità: alcuni pensieri che prima erano censurati o semplicemente ignorati perché non noti, ora possono salire agli onori della cronaca. La difficoltà rimane nel riconoscere un punteggio di affidabilità che non sia semplicemente dato dalla popolarità.

    La seconda “critica” riguarda quella che secondo me è una mancanza nell’esame delle iniziative di citizen journalism, quale quelle che citi ad esempio dell’Huffington o il Post. Queste testate, infatti, anche se all’apparenza fanno molto per nasconderlo, hanno una propria linea editoriale, ed in genere molto precisa e puntuale. Quale che sia la linea editoriale, non è una connotazione negativa: bisogna però mettere nel conto che c’è, senza incorrere nella facile conclusione che essendo iniziative nate dal basso o con dinamiche diverse dai media mainstream, non ne abbiano.
    Per cui anche sei ai singoli blogger o contributori viene data piena libertà di scrivere quel che si vuole, in realtà c’è il più delle volte una regia che seleziona le personalità che sono in grado di apportare un contributo alla linea editoriale dell’iniziativa. Sono poche le eccezioni a questa regola ed il più delle volte riguardano le testate di notizie, per le quali non c’è necessità, e non sarebbe opportuno, selezionare i contenuti o filtrarli. Negli altri casi, invece, bisogna riuscire a vedere in controluce quel “qualcosa” che si vuole dimostrare, una scaletta che varia nel tempo e che vuole portare alla formazione di opinioni, con dinamiche più o meno consapevoli da parte di chi legge. In altre parole, il rischio che a mio avviso bisognerebbe evitare, è di credere che il citizen journalism sia scevro dalle ideologie che purtroppo ancora non siamo riusciti a toglierci di dosso. Ma bisogna lavorare perché invece questo accada: il citizen media ha tutte le carte in regola per evolvere dal vecchio modo di fare giornalismo che appartiene più che altro al “voler dimostrare una tesi” passando al “cercare di mostrare i fatti” che dovrebbe essere un punto di arrivo di queste iniziative comunicative in rete. Sapendo sempre, naturalmente, che qualsiasi fatto è sempre una parte del tutto e che non c’è conclusione assoluta ma solo una ricerca. Ricerca che i nuovi mezzi consentono di estendere in maniera potenzialmente enorme.

  4. Cesare Buquicchio says:

    Caro Antonio
    un articolo molto interessante. Ma riprendendo alcuni concetti che già esponeva Giustini, avanzo anche io i miei dubbi sull’affidabilità del concetto di “condivisibilità” dell’informazione, di “crowd evaluating” delle notizie. Il rischio di appiattimento sulle notizie “popolari”, il rischio di fuga dalla complessità (che vedo come uno dei più grossi mali culturali dei nostri tempi), il rischio della esclusiva ricerca di nozioni confermative delle nostre convinzioni è grosso.

    Alcune riflessioni interessanti sul tema sono nel libro e sul blog di Federica Sgaggio (http://www.unita.it/tecnologia/indignazione-2-0-br-le-news-per-i-buoni-1.328903).

    La qualità e la capacità di rendere questa qualità fruibile e ‘utile’ al lettore sono le due direttrici su cui dovrebbe (ma non lo fa) muoversi l’informazione di fronte alla rivoluzione che la sta travolgendo e che la cambierà per sempre. Il giornalista, parafrasando Pasolini, deve essere ‘spiacevole’ e scomodo ma, nondimeno, indispensabile.

    Saltando dalla informazione alla politica, la risposta all’azzeramento della complessità nel discorso pubblico operato dal berlusconismo, da una parte, e dalla borghesia progressista ed edonista (v. alla voce la Repubblica), dall’altro, unita alle pessime prove che la classe dirigente ha dato di sé, sta portando ora a far diventare popolari rimedi che sono l’antitesi di una soluzione: vagheggiamenti di ‘democrazia diretta’ (magari grazie al web), abolizione della politica (e non come sarebbe legittimo di ‘questi’ politici), invocazione di tecnocrazie ragionieristiche, ecc… (utili antidoti in questo senso i lavori di Nadia Urbinati http://www.unita.it/tecnologia/urbinati-politica-il-web-ti-osserva-i-di-c-b-i-1.280462).

    Insomma, per risolvere problemi complessi spesso ci vogliono soluzioni complesse e spesso nemmeno quello basta e per tornare alle parole di Einstein: la soluzione, in quei casi, sta in un livello di coscienza superiore. 

    Buon anno

  5. Antonino Pileri Bruno says:

    Ottima riflessione p. Spadaro! Il web diventa un luogo di narrazione privilegiata, capace di riscrivere la realtà, a partire dalla nostra dimensione di esperienza. Credo che dietro la logica dello “sharing” ci sia il passaggio dal “cogitoergo sum ” al “participo ergo sum”: niente di nuovo…solo qualcosa di diverso. Mentre precedentemente l’idea di senso era collegata al lavoro di solitudine paziente, di attenzione miticolosa, che veniva compiutamente sistematizzato in delle “Summae”, l’idea di senso nel web è legato ad un movimento di velocità in superficie, un “serfing” da cui si perviene al cuore (senso) delle cose. Per cui il senso delle cose sembra dato dalla superficie.

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