Riporto qui di seguito alcune mie note di lettura del volume di

Mauro Magatti, La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Milano, Feltrinelli, 2012.

Ho presentato il volume presso l’Istituto Sturzo di Roma il 5 luglio 2012 insieme a Emma Fattorini, Giulio Sapelli e Johnny Dotti.

Ho letto questo libro per aria, cioè andando e venendo dalla California e l’ho letto sul mio Kindle. Credo di essere stato fortunato per questo nel senso che La grande contrazione è un libro che si presta poco a una lettura tranquilla. Ha bisogno di un contesto che dia il senso del movimento, del passaggio, del limite e dell’orizzonte.

Ringrazio Mauro per averlo scritto perché raramente ho letto libri come questo che insieme son capaci di analisi attente e puntuali ma anche di visioni ampie, di grande respiro.

In un tempo come il nostro è facile perdersi nei dettagli della crisi ed è troppo facile non interrogarsi sulle motivazioni, sulle radici, sulle domande. Soprattutto è facile cadere nell’impressione (che è illusione) del novum. La novità di ciò che accade, soprattutto a livello tecnico-finanziario, rischia di oscurare l’«antichità» delle questioni in ballo. E nella crisi della società contemporanea, nuovissima per certi aspetti, è in gioco una cosa antica, cioè la libertà dell’uomo. Nel recuperare il bandolo della matassa Mauro è puntuale e rigoroso.

In realtà i fili del suo discorso sono molteplici. Il filo che ho trovato personalmente affascinante e che ho seguito con maggiore passione è quella del rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Sono convinto che qui ci sia un nodo essenziale del nostro essere al mondo. Il nostro essere al mondo non può più prescindere (e forse mai ha potuto farlo) dalla tecnologia.

E, in compagnia di Heidegger, la riflessione filosofica contemporanea non può prescindere dal sospetto di una minaccia, quella di negare all’uomo il «raccoglimento», il ritorno a «un disvelamento più originario e di esperire così l’appello di una verità più principale» (Heidegger 1976, 21). Sembra ormai assodato che la tecnica sia contraria alla vita dello spirito o meglio segni la sua crisi segnando la pista di un individualismo neo-materialista. E’ davvero così?

Con Heidegger ci siamo abituati a distinguere il pensiero in «calcolante» e «poetante». Questa distinzione ha plasmato la nostra capacità di pensare l’homo tecnologicus come homo spiritualis chiudendo una ferita che invece doveva
restare aperta.

La tecnologia, scrive Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, «è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia». La tecnologia è, dunque, la forza di organizzazione della materia da parte di un progetto umano consapevole, dell’uomo come essere spirituale.

In particolare il cristiano, quindi, è chiamato a comprendere la natura profonda, la vocazione stessa della tecnologie in relazione allo vita dello spirito. Ovviamente la tecnica è ambigua perché la libertà dell’uomo può essere spesa anche per il male, ma proprio questa possibilità mette in luce la sua natura legata al mondo delle possibilità dello spirito.

Sarebbe riduttivo considerare la tecnica solamente frutto di una volontà di potenza e dominio. Anche perché è impossibile oggi pensare noi stessi come esseri umani senza la tecnica. Se siamo qui in questa sala è grazie alla tecnica, se ci sentiamo è grazie alla tecnica. La tecnologia non solo non è più solo uno strumento, ma non è più neanche un «ambiente». Sembra essere il «tessuto connettivo» della nostra cultura attraverso la quale esprimiamo non solamente la nostra identità, ma anche la nostra stessa presenza.

Il libro La grande contrazione non è, fortunatamente, una «grande contrizione» rispetto alle possibilità che si aprono davanti all’uomo d’oggi. Per usare una espressione di Mauro, è invece l’espressione di un «esercizio “pio” che il pensiero svolge ponendo domande, ricercando la verità e il senso delle cose». Perché, e qui Heidegger aveva ragione, «domandare è la pietà del pensiero». Quali sono le domande dell’uomo tecnologico, che oggi è l’uomo tout court?

Sono stato pochi giorni fa al Google I/O di San Francisco. Mi ha colpito una postazione con un monitor sul quale appariva la domanda: «Who am I?». Ma posso anche chiedermi: «dove sono io?» se io stesso gioco la mia presenza almeno in due ambiti: la mia presenza fisica e la mia presenza «sociale» mediata dalla tecnologia e dai network sociali (Facebook…).

La divaricazione possibile tra la dimensione fisica e le altre dimensioni dell’uomo (quale, ad esempio, quella sociale) in un contesto «virtuale» dispiega un «mondo di possibilità». La possibilità per l’uomo contemporaneo diventa il suo «mondo». Una volta il «mondo» per l’uomo era la sua realtà oggettiva, adesso diventa invece il «campo» delle sue possibilità di espansione.

Lo diceva già Emily Dickinson quando in un suo verso scriveva I dwell in possibility. Ma lei intendeva un’altra forma di virtualità, quella dispiegata dal testo letterario che permette all’uomo di vivere molte vite ma che tutte trovavano sintesi nella sua coscienza.

Oggi l’uomo invece sembra del tutto estroflesso verso l’orizzonte delle sue possibilità e il suo desiderio di «esprimere» (non «comunicare») se stesso. E’ in questo orizzonte che egli sembra riconoscere la possibilità dell’esercizio della sua libertà. Ed è questa la forma di espressione della volontà di potenza intesa come energia che muove l’uomo.

L’idea di fondo nel libro di Mauro è riconosciuta con semplicità: «noi siamo tanto più liberi quanto più possiamo scegliere, cioè quante più opportunità abbiamo davanti a noi». La società che ama la libertà è quella che amplia gli spazi di scelta individuale. La libertà è pensata come un movimento espansivo che ha bisogno della crescita ininterrotta delle opportunità disponibili. Il gigantismo dei sistemi istituzionali finisce invece per ridurre le opportunità disponibili a livello individuale.

Da qui il cortocircuito che intende la virtualità del possibile come inevitabile disemboidment e disembedding, perdita della carne e perdita del limite dentro un ambiente che viene tessuto dalla mediazione tecnica che si impone e diviene totale. La tecnica crea un cortocircuito tra virtualità e spiritualità.

Ma in questa mediazione si perde la mediazione poetica, simbolica, «liturgica» col mondo e con gli altri. Leggendo le riflessioni di Mauro, che cita Ellul, a me è venuta in mente la distinzione che il Albert Borgmann pone tra due culture: quella degli «strumenti tecnologici» (technological devices) quali radio, televisione, computer, cellulari, e quella degli «oggetti focali» (focal things) quali il focolare, il pasto condiviso, ma anche l’altare dove una liturgia ha luogo.

Borgmann lega la prima alla comodità e al controllo, dove non hanno rilevanza i legami di spazio e tempo o le tradizioni, e dove le cose non hanno in se stesse un significato, al di là del loro uso. In questo senso il condizionatore che riscalda un ambiente è una comodità, che si accende e si spegne al bisogno rispetto al camino, che invece evoca non solo un processo di preparazione, ma anche un ampio spettro simbolico ed emotivo. La potenza simbolica oggi sembra affidata a un prodotto che crea una esperienza e l’impresa che lo produce è una vera e propria «regista delle esperienze». Oggi viviamo troppo di «condizionatori» e poco di «camini».

 

A mio avviso proprio qui c’è una questione per il teologo: qual è la vocazione della tecnica? E quando parlo di «vocazione» parlo in senso teologicamente proprio. Qual è il ruolo della tecnologia nel disegno di Dio sull’umanità? Mantenere la scissione tra pensiero poetante e pensiero calcolante, a mio modo di vedere, è la grande tentazione davanti alla grande contrazione. Tecnica e spiritualità sono i luoghi della libertà. Su questo il libro mi ha provocato senza darmi soluzioni pacificanti.

Nel 1964 Paolo VI, rivolgendosi al Centro di Automazione dell’Aloisianum di Gallarate, aveva usato parole di una bellezza sconcertante, a mio avviso. Il Centro stava elaborando l’analisi elettronica alla Summa Theologiae di San Tommaso e anche al testo biblico. Vi cito queste parole:

«il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale; e quanto più questo si esprime nel linguaggio suo proprio, ch’è il pensiero, quello sembra godere d’essere alle sue dipendenze. Non avete voi cominciato ad applicare codesti procedimenti al testo della Bibbia latina? Che cosa avviene? […] non è cotesto sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali, che è nobilitato ed innalzato ad un servizio, che tocca il sacro? E’ lo spirito che è fatto prigioniero della materia, o non è forse la materia, già domata e obbligata a eseguire leggi dello spirito, che offre allo spirito stesso un sublime ossequio? È a questo punto che il Nostro orecchio cristiano può udire i gemiti, di cui parla S. Paolo (Rom. 8, 22), della creatura naturale aspirante ad un grado superiore di spiritualità?».

Paolo VI sente salire dall’homo tecnologicus il gemito di aspirazione ad un grado superiore di spiritualità. L’uomo tecnologico è l’uomo spirituale. Da qui l’affrancamento da una visione della tecnica intesa come sistema in cui il mondo è oggettività calcolabile e la cui verità è la pura misura. Ecco una buona definizione teologica della tecnologia: lo “sforzo di infondere in strumenti meccanici il riflesso di funzioni spirituali”.

A sua volta Benedetto XVI ha affermato che le nuove tecnologie «possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano»

Ecco: questa è l’unica premessa valida per un discorso cristiano sulla tecnologia: riconoscere il suo valore, la sua «capacità» spirituale. Qui si trova il vero nodo gordiano, individuato da Mauro con precisione: la «trascendenza».

Lo «spazio estetico mediatizzato» costruito dalla tecnica è un campo totale che non ha un «fuori» e circoscrive un’immanenza totale. La teologica «nube della non conoscenza» svanisce o si infittisce, se vogliamo, nella «nuvola mediatizzata», nel cloud nel quale tutti noi siamo in un modo o nell’altro immersi e nel quale i media sono sciolti, saturando l’orizzonte della nostra vita. Viviamo in un mercato, come in un suk, scrive Mauro, all’interno del quale ci perdiamo ma dal quale non usciamo. Eric Raymond uno dei fondatori del movimento hacker avrebbe parlato meglio di bazaar.

In questa nuvola che cosa accade? Una sorta di «neosofismo» in cui:

1. I significati e i valori diventano semplici «punti di vista».

2. Diventa «vero» ciò che è «comunicato» in maniera efficace ed è capace di «prenderci».

3. L’esperienza si diluisce in esperimento,

4. La realtà si diluisce in simulazione,

5. Le gerarchie si diluiscono in equivalenze,

6. il desiderio (che è non saturabile) si riduce a godimento di una consumazione,

7. L’esperienza del «vuoto» si trasforma in quella più gestibile della «mancanza»,

8. L’infinito si riduce a l’«infintazione» (cioè la moltiplicazione delle opportunità),

9. L’apertura alla trascendenza in una esperienza di permanenza del soggetto dentro l’immanente ambito delle sue possibilità che dispiega il comandamento dell’autoempowerment.

10. La domanda di «senso» si traduce in domanda di «sensazione»

Oggi la tecnica sembra aver preso il posto della poesia come ermeneutica del desiderio. La letteratura e l’arte, in generale, hanno sempre costituito un’ermeneutica del desiderio dell’uomo. La poesia – come Montale in Maestrale – è capace di scrivere: Sotto l’azzurro fitto del cielo / qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini / portano scritto: / “più in là”. Al tempo del tecno-nichilismo questo «più in là», l’ermeneutica di questo «oltre» sta a metà tra la tecno-utopia e lo «spreco».

Ha ragione Mauro, «in un contesto dominato dall’affidabilità tecnica, il mistero è pensato come qualcosa di irreale, un residuo che, nascondendo l’incomprensibile e l’inclassificabile, è destinato prima o poi, a essere eliminato». Il mistero non coincide più con l’Alterità, ma con una sorta di «Far West», cioè con un territorio da conquistare con pionierismo e audacia. La metafora non è più quella del pellegrino medioevale ma quella del cow-boy.

Ma questa è una sfida di senso alla quale l’uomo è chiamato a rispondere. Come? Occorre proseguire nella linea indicata da Paolo VI che connette cervello meccanico e cervello spirituale.

Mi ha colpito il fatto che il teologo cattolico Tom Beaudoin abbia notato come il cyberspazio, così peculiare per la rapidità delle sue connessioni, rappresenti il desiderio dell’uomo di una pienezza che sempre lo supera sia a livello di presenza e relazione sia a livello di conoscenza: «il cyberspazio sottolinea la nostra finitudine», «rispecchia il nostro desiderio di infinito, del divino». Cercare questa pienezza significa dunque, in qualche modo, operare in un campo «in cui la spiritualità e la tecnologia si incrociano». Lo sviluppo tecnologico, se ben inteso, non riesce forse ad esprimere una forma di reale anelito alla «trascendenza»?

E’ la salvaguardia della «trascendenza» la chiave di volta del nostro destino. E’ questa trascendenza ad essere, scrive Mauro, lo «spazio di elaborazione del senso capace di offrire una direzione e di dare uno spessore all’esperienza che facciamo della vita». Questa attitudine, «altro non è che la dimensione spirituale. Per questo, la crisi in cui l’Occidente versa è, fondamentalmente, crisi spirituale». La sfida è riportare nella sua casa propria, la vita dello spirito cioè, quell’energia che il capitalismo e il tecno-nichilismo hanno assorbito nella modernità.

Ma questo come? Non certo ipotizzando un ritorno alle origini, un ritorno indietro o condannando la tecnica, ma scoprendo con un attento discernimento all’interno delle forme dionisiache o prometeiche di desiderio, la vocazione iscritta nell’uomo sin dalla creazione (la sua immagine e somiglianza con Dio di Gen. 1,26).

Mauro (con MacLuhan) propone di puntare alla creazione e alla conservazione di anti-environments, di «controambienti» che ci permettano di star fuori dall’ambiente per capire la configurazione delle forze e della logica in gioco. Mauro individua 3 contro-ambienti: la sfera religiosa, la sfera educativa e la sfera dell’ambiente naturale. E’ la parte forse più densa del libro, più propositiva. Noi abbiamo bisogno di contesti che ci offrano il senso di una alterità, di una trascendenza che ci supera e che ricolloca al suo posto il limite. Questa è la virtuosità dei contro-ambienti.

Mauro chiede di «salvaguardare gli spazi della trascendenza». E questo perché queste tradizioni ci aiutano a capire come la crisi dell’Occidente consiste nell’aver confuso l’espansione materiale, quantitativa, individualistica e orizzontale con l’eccedenza spirituale, qualitativa, relazionale, verticale. In particolare riconosce uno status particolare alle tradizioni religiose millenarie che costituiscono un patrimonio immenso di conoscenza e sapienza. La religione infatti pone le domande di senso, e non può essere intesa come discorso equivalente ad altri discorsi culturali all’interno della moltiplicazione infinita dei significati.

Detto questo però, a mio avviso, occorre un passaggio ulteriore ma decisivo. Il rischio è quello di collocarci fuori dall’ambiente vivendo la trascendenza come qualcosa di antitetico alle tensioni espresse dalla sua capacità tecnica. A noi oggi serve un passaggio ulteriore. Se non si riconosce il valore intrinsecamente spirituale della tecnica si andrà alla ricerca della spiritualità e dei significati lì dove l’uomo non c’è. McLuhan diceva che «la tecnologia elettrica è in diretto rapporto con i nostri sistemi nervosi». Come non vedere anche il rapporto tra la tecnologia elettrica e il nostro spirito?

La trascendenza non è semplicemente l’al-di-là del mondano. Ha scritto Teilhard de Chardin, vero genio per comprendere i nostri tempi: «Dio preme, in noi e su di noi, mediante tutte le potenze del Cielo, della Terra e degli inferi, nell’atto di costituire e di portare a compimento il Cristo che salva e superanima il Mondo. Nel corso di questa operazione, lo stesso Cristo non si comporta affatto come punto di convergenza inerte e passivo, ma rappresenta il centro d’irradiazione delle energie che riconducono l’Universo a Dio attraverso la sua Umanità. Per questo i flussi dell’azione divina ci giungono infine impregnati delle sue energie organiche» (L’ambiente divino).

La trascendenza è la forza di attrazione escatologica del mondano, ciò che lo anima e lo attira. Che si traduce nella capacità dell’uomo di pensare la fine alla luce dell’inizio. E’ forse questo il contributo della religione alla «crescita»: la tensione escatologica rende ragione delle dinamiche proprie dello spazio antropologico, al di là della slegatura tecno-nichilista.

 

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