Milioni di utenti Instagram , il popolare social network che permette la condivisione di foto, hanno tremato. Improvvisamente ha infatti cambiato i regolamenti della privacy e i termini del servizio facendo intendere di aver aperto la strada all’utilizzo dell’archivio di immagini da parte di organizzazioni esterne, per campagne pubblicitarie o promozioni, senza che siano attribuiti compensi economici agli autori degli scatti.

La proprietà delle fotografie resta degli iscritti ma, come avviene in altre applicazioni simili, viene garantita a Instagram una licenza per il riutilizzo a scopi commerciali. A questo punto, si è aperta la fuga verso altri servizi e la messa in salvo delle proprie foto tramite servizi come Instaport. La rete ha reagito subito e violentemente, dunque, costringendo il co-founder di Instagram, Kevin Systrom, a tornare sui suoi passi dicendo che c’era stato un equivoco.

Perché queste reazioni? Perché le persone in rete hanno reagito così ampiamente con preoccupazione alle notizie circa il cambiamento di norme di un social network? Che cosa c’è davvero in ballo? Cerchiamo di capire meglio…

Tutti gli smartphone, che siano iPhone, Android o Windows Phone, sono ormai dotati di un obiettivo di una certa qualità. Avere uno smartphone in tasca significa dunque anche avere sempre a portata di mano una macchina fotografica. Questa evoluzione tecnologica sta dando vita a una vera e propria rivoluzione della esperienza umana della fotografia che consiste nel fatto che oggi si può fotografare in qualunque istante della vita.

La «macchina fotografica» è obsoleta come oggetto, o meglio è riservata a cultori del click. Si vanno moltiplicando, anzi, i professionisti, e specialmente i reporter, che praticano la cosiddetta «phonografia». La caratteristica di questa pratica fotografica consiste nel fatto che lo scatto ne è solamente il primo momento. A questo, infatti fa seguito il secondo momento, cioè la post-produzione, cioè l’elaborazione della foto grazie a numerose applicazioni che ne permettono la modifica anche applicando filtri: è un gesto che permette di elaborare un’immagine per adeguarla alla propria visione. Il terzo momento consiste nella condivisione: ogni scatto elaborato può sempre essere condiviso sui social networks quali Facebook e Twitter. Dunque: scatto, elaborazione e condivisione.

Negli ultimi due anni sono nati anche dei social networks specifici di condivisione di foto. Il più noto di essi è Instagram che ha avuto un tale successo da essere stato acquistato da Facebook per 1 miliardo di dollari. Ma ne sono nati anche altri, ciascuno con qualche puculiarità quali Streamzoo, Pixlr-o-matic, Hipster, PicYou, e altri che dopo il passo falso di Instagram hanno visto aumentare improvvisamente i propri utenti. Ogni foto può essere contraddistinto da un «hashtag», cioè da una parola che ne identifica il contenuto preceduto dal carattere #.

Dunque la fotografia è diventata un gesto «democratico» e aperto alla condivisione. La logica del social network, sposandosi con quella dello scatto ha così trasformato la fotografia da «memoria» a «esperienza». Si scattano foto per «vedere» meglio ciò che si vede e per condividere l’esperienza che si sta facendo sul momento con gli amici. Le «istantanee» diventano i pezzi di una narrazione «lifestreaming». La condivisione in diretta delle fotografie sviluppa un flusso di immagini che non è pensato per essere archiviato, indicizzato, memorizzato. Le foto si accavallano, si sostituiscono, man mano che vengono postate in successione. Più che creazione di memoria, dunque, si tratta di plasmare l’esperienza e di condividerla.

Come cambierà il modo di dire la fede al tempo delle istantanee simboliche e condivise? Non ci sarà rintracciabile in questo flusso di immagini un «desiderium naturale videndi Deum»? Ci sono vari esperimenti a questo proposito dai nomi interessanti quali Framing God in all things  o Picturing God.

Non solo: #theology è diventato anche un hashtag abbastanza usato su Instagram. Il potenziamento dell’espressione simbolica certamente avrà un impatto anche sulla nostra capacità di dire la fede nella cultura della digitale.

E’ una strada interessante da percorrere anche per gruppi e comunità: quali le immagini per dire la fede? Quali gli hashtag, cioè le parole-chiave, da usare? La Chiesa ha una lunga tradizione di catechesi visiva in tempi in cui l’alfabetizzazione era limitata. E questa tradizione può dire molto all’uomo d’oggi alla ricerca di immagini per esprimere il proprio desiderio di una vita piena, oltre che di trascendenza.

  1. Paolo Nasti says:

    Il riferimento alla tradizione dell'uso delle immagini nella catechesi, quanto mai pertinente, fa riflettere che non si può interpretare e vivere correttamente la modernità senza memoria del passato;ciò che non tutti ricordsno.

  2. shiluvimandfocusing says:

    Francamente, mi turba molto il fatto che i giovani di oggi sono aperti ad un mondo in cui la parola privacy per loro non esiste. Instagram e’ solo un’altro posto dove farsi le proprie foto, ci sono anche dei minorenni. Gia’ Twitter e Facebook sono problematici ma per me Instagram per i giovani lo e’ di piu’. C’e’ qualcosa di molto personale nella foto di una persona, molto di piu’ di quello che uno possa scrivere in un post.

  3. fede says:

    Io non riesco a capire come si possa concedere ad un minorenne di poter scaricare un’app di questa specie che permette la condivisione di foto in album pubblici dai quali chiunque puó attingere informazioni sul minore stesso e puó in qualsiasi momento cercare di mettersi in contatto con lo stesso… i minorenni non hanno capacitá di agire in giudizio e non possono stipulare contratti.. almeno cosí recita la giurisprudenza italiana

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