Oggi è apparsa su Repubblica una intervista nella quale intervengo (molto brevemente) sulla questione Vatileaks. Una domanda che il giornalista, Marco Ansaldo, mi ha posto è stata: “Non crede che ci possa essere stato un difetto di comunicazione da parte ecclesiastica nell’affrontare l’argomento?”. Credo si tratti di una domanda importante. Aggiungo qui qualche breve riflessione in più.

Infatti la comunicazione ecclesiale è un grande tema che richiederebbe una riflessione ampia, articolata, attenta.

Io vedo sostanzialmente due problemi da affrontare con calma e rigore.

Il primo: chi scrive di Vaticano oggi spesso non ha la formazione specifica che sarebbe necessaria. Non si può pretendere che un vaticanista abbia la laurea in Teologia o in Diritto canonico o in Storia della Chiesa, e tuttavia non basta per svolgere questo delicato compito avere una formazione generalista. Non dico solamente che bisogna conoscere il linguaggio giusto (a volte si leggono cose inverosimili quali “il tizio è stato ordinato cardinale” o “tutto il clero di Roma, maschile e femminile…”, o il titolo “monsignore” dato a un religioso francescano o salesiano o gesuita). Dico soprattutto che c’è bisogno di categorie per leggere una realtà complessa come la Santa Sede che non può essere ricondotta alla dimensione di uno stato, foss’anche dello Stato della Città del Vaticano. Dunque questo della formazione dei vaticanisti è un tema sul quale la Chiesa stessa deve riflettere, magari fornendo qualche indicazione in più, qualche corso di formazione, forse. Serve, credo, uno sforzo ulteriore.

Il secondo problema: la comunicazione attuale in qualche caso, quello che riesce a fare più rumore, vive di contrapposizioni nette, di bianchi e di neri, di tensioni dialettiche. La comunicazione vaticana invece vive (fortunatamente)  di un’altra logica, più legata alle mediazioni, di profilo alto, tendente a non dare conferme o smentite tagliate con l’accetta, a tenere anche un profilo che faccia comprendere i valori e specialmente quelli spirituali.

Il disagio comunicativo dunque, a mio avviso, è inevitabile. E penso che abbia pure un grande valore di questi tempi. L’informazione vaticana del resto a mio parere vive non di notizie puntuali ma di grandi narrazioni e richiede osservazione lunga, e spesso molta pazienza. Svidercoschi, Zizola, Benny Lay, Accattoli, per citarne qualcuno ed evitando di citare ottimi vaticanisti più giovani che seguo con attenzione, lo avevano compreso. Magister ha definito una volta quello dei vaticanisti un giornalismo tutto speciale che non ha eguali al mondo. Credo che abbia ragione.

Credo però anche che si debba fare i conti con la realtà. Molto è stato fatto e si sta facendo per innestare la comunicazione vaticana nel tessuto vivo della comunicazione digitale e più veloce per evitare che essa appaia ingessata. In questo il lavoro di p. Lombardi e della Sala Stampa mi sembra assolutamente centrato: la direzione è quella giusta. Molto resta ancora da fare. E’ necessario in qualche modo fronteggiare le emergenze, fare dichiarazioni, dare smentite, spiegare i fatti, è vero, ma non si deve smantellare una tradizione comunicativa che è sempre stata di alto profilo.

  1. Marco Pasquali says:

    condivido appieno, anche se è vero che la questione della comunicazione di inserisce all'interno di un contesto più ampio: il disagio (se non la difficoltà) di alcuni prelati "diversamente giovani" (e non intendo solo anagraficamente) ad attuare quella conversione che è prima di tutto pastorale, di cui in fondo si parla spesso. Si parla con un linguaggio (fatto non solo da espressioni verbali, ma anche da tempi legati al mezzo comunicativo) che pretende di "essere compreso" invece di tendere verso il destinatario affinchè sua lui a comprendere.

  2. Agostino Clerici says:

    D'accordo con te sui due problemi che segnali giustamente e che anch'io, come giornalista e fino a poco tempo fa direttore di un settimanale diocesano e responsabile di un ufficio stampa, ho potuto toccare con mano. Ma penso che si debba essere onesti e segnalare un terzo problema, che riguarda il rapporto che la Chiesa ha con la comunicazione: spesso è preoccupata di governarla invece che impegnata a comunicare con la stessa trasparenza che chiede agli altri. Io ho scritto qualcosa sul mio blog, che forse potrà suonare anche polemico. Lo segnalo: http://agostinoclerici.it/2012/02/13/quanta-sporcizia-ce-nella-chiesa-quanta-superbia-quanta-autosufficienza/#more-324

  3. Michele Quintana says:

    Per quanto riguarda il secondo problema, d'accordo. Ma sul primo problema va fatta, a mio avviso, qualche precisazione. Il giornalista è un mezzo di comunicazione, deve passare le notizie (le interpretazioni, i commenti ecc.) al grande numero di lettori. Ma se questi lettori non hanno le "categorie teologiche" di cui si diceva …? Inutile che a possedere tali categorie siano l'emittente e il "mezzo" se poi il ricevente non ce le ha. Non è che la nostra teologia deve rivedere le sue "categorie" che non sono più comprensibili se non a una ristretta elite?

  4. Gianni Del Bufalo says:

    Certamente condivisibile il merito e opportune le osservazioni, tuttavia la regola aurea di ogni comunicazione è che conta quello che il destinatario capisce (ovviamente se a chi comunica interessa essere capito). Insomma la comunicazione o funziona o non funziona: non si valuta eticamente sulle intenzioni di chi parla, ma pragmaticamente sulle orecchie di chi ascolta. A prescindere dal contenuto. Non sarebbe male ricordarselo anche dal pulpito… (non solo in sala stampa).

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