Dal 10 al 12 novembre si è tenuto presso le Gallerie di Piedicastello a Trento l’ Internet Governance Forum Italia. All’interno del programma uno dei panel è stato dedicato a Le religioni nella Rete. Qui di seguito riporto il testo del mio intervento.

Per comprendere i rapporti tra internet e religione credo sia necessario partire da una considerazione per noi tutti chiara. Basta ricordarla: la Rete non è uno strumento ma un ambiente che dà forma a un modo di pensare e a un modo di stringere le relazioni. La vera sfida che le religioni maturano è quella di imparare a vivere la Rete come uno degli ambienti di vita. ~ Non “vivere bene la Rete”, ma “vivere bene ai tempi della Rete” ~ La Rete ha a che fare con la fede in quanto ha a che fare con la vita del credente.

In particolare la Rete è una rivoluzione che potremmo definire «ANTICA», cioè con salde radici nel passato perché dà forma nuova a desideri e valori antichi quanto l’essere umano. Quando si guarda a internet occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere, e cioè: relazione e conoscenza. Questo ci fa capire perché la Rete e la Chiesa sono due realtà da sempre destinate ad INCONTRARSI: da sempre la Chiesa ha nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere. Ecco perché. Questa è dunque la prima cosa che sento di dirvi sul tema.

Ma se la Rete cambia il modo di pensare e di vivere i rapporti allora intuiamo già che internet comincia a porre delle sfide alla comprensione stessa del cristianesimo. Mi limiterò qui a individuare questi punti critici per avviare una loro discussione…

1. Primo punto critico: la rete plasma lhomo religious

Digitando in un motore di ricerca la parola God oppure anche religion, spirituality, otteniamo liste di centinaia di milioni di pagine. Internet sembra essere il luogo delle risposte. L’uomo alla ricerca di Dio oggi avvia una ricerca. Come cambia la ricerca di Dio al tempo dei motori di ricerca? Quali sono le conseguenze di questa ricerca? Tra le tante mi soffermo su una: il possibile cambiamento radicale nella percezione della domanda religiosa.

Una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale. L’uomo era una bussola, e la bussola implica un riferimento unico e preciso: il Nord. Poi l’uomo ha sostituito nella propria esistenza la bussola con il radar che implica un’apertura indiscriminata anche al più blando segnale e questo, a volte, non senza la percezione di «girare a vuoto». L’uomo però era inteso comunque come un alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno profondo. Oggi queste immagini, sebbene sempre vive e vere, «reggono» meno. L’uomo da bussola prima e radar poi, si sta trasformando in un decoder, cioè in un sistema di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono. Posta la domanda, siamo bombardati dalle risposte; viviamo una answering overload.

PRIMA CONSEGUENZA: La domanda religiosa in realtà si sta trasformando in un confronto tra risposte plausibili e soggettivamente significative. Le domande radicali non mancheranno mai, ma oggi sono mediate dalle risposte che si ricevono. Questo è uno degli effetti della ricerca di Dio ai tempi dei motori di ricerca: la risposta è il luogo di emersione della domanda.

SECONDA CONSEGUENZA: La Rete plasma il modo di intendere i contenuti della fede che diventano “orbital content” contenuti che orbitano attorno a chi li cerca o li trova. Cerco di spiegarmi. Tutti noi conosciamo, ad esempio, Instapaper, credo (o anche Read it Later). E’ la più nota delle cosiddette «bookmarklet apps» con la quale è possibile salvare tutto ciò che ci interessa in un unico luogo (computer, tablet, o altro) e in un formato standard e in modo da accedervi in qualunque momento, anche senza copertura di Rete.

Quante volte navigando ci siamo imbattuti in testi o video interessanti senza avere il tempo di poterne fruire? Per salvarli dall’oblio bisognava salvarne l’indirizzo web. Adesso invece appena si trova un contenuto interessante lo si fa «orbitare» attorno a se stessi, del tutto astratto dal suo contesto proprio, salvandolo grazie a queste applicazioni.

La logica di Instapaper consiste nel fatto che i dati frutto delle mie ricerche vengono «pescati» della Rete, selezionati per interesse, privati dalle loro radici e fatti convergere su una piattaforma che li conserva in modo che sia possibile rinviare la lettura a un momento successivo. Così si sviluppa il senso che la conoscenza è chiamata ad orbitare attorno al soggetto in maniera a lui del tutto funzionale e orientata. Oggi la fede sembra partecipare di questa logica che è un modo per gestire la complessità. Quali ne saranno le conseguenze?

2. Secondo punto critico: il significato della «presenza reale»

È possibile immaginare i sacramenti e liturgie nell’ambiente digitale? Chi è l’uomo orante nell’ambiente digitale? Ciò che sembra di poter quasi banalmente osservare è che col crescere degli spazi virtuali, molti hanno cominciato ad avvertire il bisogno di creare luoghi di preghiera o addirittura chiese, cattedrali, chiostri e conventi per tempi di sosta e di meditazione. Ad esempio l’elenco delle chiese nella Second Life era molto lungo. Questo è un dato interessante.

Se partecipo a un evento liturgico in Rete, sto davvero partecipando a un evento liturgico? Il documento La Chiesa e Internet (2002) del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, è stato quanto mai chiaro: «La realtà virtuale non può sostituire la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia, la realtà sacramentale degli altri sacramenti e il culto partecipato in seno a una comunità umana in carne e ossa. Su Internet non ci sono sacramenti. Anche le esperienze religiose che vi sono possibili per grazia di Dio sono insufficienti se separate dall’interazione del mondo reale con altri fedeli» (n. 9).

L’affermazione è molto interessante perché dice tante cose. Negando la possibilità di liturgie in Rete afferma anche:

–  la possibilità di esperienze religiose su Internet per grazia di Dio. Dunque sta dicendo che Internet è ambiente di vita in cui la grazia di Dio è all’opera.

–  pone la vera grande questione: che cos’è la “presenza”? Che significa essere “presenti” ai tempi della Rete? Quando e come io, come essere umano, posso dire di essere “presente”?

La Chiesa insiste sul fatto che sia antropologicamente errato considerare la realtà virtuale come capace di sostituire l’esperienza reale, tangibile e concreta della comunità cristiana visibile e storica, e così dunque anche per i sacramenti.

Il vero nucleo problematico della questione che stiamo affrontando sembra dato dal fatto che lesistenza «virtuale» appare configurarsi con uno statuto ontologico incerto: prescinde dalla presenza fisica, ma offre una forma, a volte anche vivida, di presenza sociale. Essa, certo, non è un semplice prodotto della coscienza, un’immagine della mente, ma non è neanche una res extensa, una realtà oggettiva ordinaria, anche perché esiste soltanto nell’accadere dell’interazione. Si apre davanti a noi un mondo «intermediario, ibrido, la cui ontologia andrebbe indagata meglio.

Certamente una parte della nostra capacità di vedere e ascoltare è ormai palesemente «dentro» la Rete, per cui la connettività è ormai in fase di definizione come un diritto la cui violazione incide profondamente sulle capacità relazionali e sociali delle persone. La nostra identità viene sempre di più vista come un valore da pensare come disseminata in vari spazi e non semplicemente legata alla nostra presenza fisica, alla nostra realtà biologica.

3. Terzo punto critico: la condivisione e i suoi problemi: lautorità e la trascendenza

Parto dal caso di Wikipedia che ha segnato un cambiamento netto: mentre i media tradizionali (inclusi libri, enciclopedie ecc.) permettevano sostanzialmente il «consumo» di ciò che veniva «prodotto», il cablaggio delle reti ci permette di poter immaginare risorse globali condivise, e di immaginarci nuovi tipi di partecipazione.

Clay Shirky in proposito, sta riflettendo su questa sorta di Surplus cognitivo, come recita il titolo di un suo celebre volume. A suo avviso, questo surplus si sta caratterizzando come una forza emergente e vitale, in grado di raccogliere un sapere delocalizzato e frammentato, e di aggregarlo in qualcosa di nuovo. Questa condivisione non risponde ad alcun «centro» e ad alcuna «autorità». È una sorta di processo biologico di accrescimento ed estensione.

Ovviamente si tratta di una visione ottimistica. Occorrerebbe interrogarsi meglio sui problemi che la gestione di questo «plusvalore» crea. Le domande sono tante: che cosa farà la società di tutto questo plusvalore? Come farà sorgere una nuova idea di qualità? E chiaro che sempre di più sarà necessario immaginare lattivazione di filtri sociali

Ciò che qui mi preme sottolineare è che il sapere collaborativo sembra oscurare il principio di autorità a favore di modi concordati di vedere le cose (in fondo è questa la logica del Page Rank di Google…).

Ecco allora che in ambito teologico oggi si comincia a parlare di open source theology. Ma qual è il «codice sorgente» della teologia? È la Rivelazione, che dunque resterebbe «aperta» alle forme più disparate di lettura, applicazione e presentazione. Se il «codice sorgente» della teologia, la Rivelazione, venisse modificato in se stesso, non saremmo più davanti a una teologia cristiana, ma a una più generale discussione su temi di significato teologico-religioso. Il cristianesimo tenderebbe ad assumere i caratteri di una «narrazione partecipativa» realizzata da individui o gruppi in cornici e contesti culturali disparati.

A questo punto ecco le domande e le sfide:

Non sarà questa logica collaborativa in rotta di collisione con una mens cattolica e la sua visione dell’autorità e della tradizione?

Sarà possibile ricomprendere l’autorità nel senso in cui la teologia cattolica la intende in un contesto che spinge al decentramento e alla de-gerarchizzazione della conoscenza?

Agire collaborativo e principio di autorità sono in radicale intrinseca opposizione, come sembra essere dato per scontato?

Davvero la cattedrale è incompatibile col bazar per citare Eric Raymond; o il monastero con l’accademia per citare Himanen? Per rispondere a queste domande occorre capire dove sta esattamente il  punto di criticità della cultura open. Ecco 2 punti critici:

IL DONO e la TRASCENDENZA: La cultura open è una gift culture. Occorre però comprendere il significato esatto di questa parola. Qui il «dono» tende ad assumere la forma del gratis. Più che spingere a dare e ricevere, muove a «prendere» e «lasciare che gli altri prendano». È il concetto stesso di «dono» che oggi sta mutando. Più che di «dono», oggi parliamo di «scambio» libero, il quale è reso possibile e significativo grazie a forme di reciprocità.

La Rivelazione cristiana vive di una logica del dono indeducibile a partire da uno scambio collaborativo di tipo orizzontale. Così la gratuità della grazia teologicamente intesa non è riducibile a una logica di connessioni, la quale può essere benissimo anonima, su base individuale, e impersonale. Il rischio dunque è di indurre a intendere la comunione come connessione e il dono come gratis.

Quello che Shirky chiama il surplus nella Chiesa non è soltanto immanente, frutto dello sforzo dei credenti, ma è un surplus santificante. L’elemento dinamico della Chiesa è proprio lo Spirito.

Insomma, nella sfida che la mentalità open comincia a porre alla teologia e alla fede, va preservata lapertura umana alla trascendenza, a un dono indeducibile, a una grazia che «buca» il sistema delle relazioni e che non è mai solamente il frutto di una connessione o di una condivisione, per quanto ampia e generosa.

In una frase: la religione vuole ricordare alluomo doggi che la vita e il suo significato non sono esauribili in una rete orizzontale.

L’AUTORITA’: Tuttavia confrontarsi in maniera critica, seria, con lo spirito hacker è necessario perché aiuta oggi a comprendere meglio che il fondamento trascendente della fede mette in moto un processo aperto, creativo, collaborativo, collegiale, valorizzando l’opinione pubblica. Aiuta a immaginare forme di governance collaborativa e di «autorità distribuita» (Cfr. ad esempio, http://www.mozilla.org/about/governance.html)

In particolare è chiaro che la società digitale non è più pensabile e comprensibile solamente attraverso i contenuti, ma soprattutto attraverso le relazioni. Lo scambio dei contenuti che avviene all’interno delle relazioni. La Chiesa è chiamata, dunque, ad approfondire maggiormente l’esercizio dell’autorità in un contesto fondamentalmente reticolare e dunque orizzontale. Appare chiaro che la carta da giocare è la testimonianza autorevole. La «testimonianza» è da considerare dunque, all’interno della logica delle reti partecipative, un «contenuto generato dall’utente».

La Chiesa in Rete è chiamata dunque non solamente a una «emittenza» di contenuti, ma soprattutto a una «testimonianza» in un contesto di relazioni ampie composto da credenti di ogni religione, non credenti e persone di ogni cultura. E’ su questo terreno che si impone l’autorità della testimonianza. Non si può più scindere il messaggio dalle relazioni «virtuose» che esso è in grado di creare.

  1. Salvatore says:

    Buon giorno. Mio commento : trovo la riflessione (o intervento) del p. Antonio Spadaro interessante nel senso che mi porta a “ripescare” nei concetti o nelle parole “tradizionali” la novità dell’oggi.
    p.Salvatore Ugenti

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