Ripubblico qui di seguito un articolo apparso il 16 febbraio scorso su L’Osservatore Romano a firma del Leonardo Lugaresi, professore di Letteratura Cristiana Antica all’Università di Bologna. La riflessione è estremamente interessante e capace di generare ampie riflessioni perché cerca di comprendere quale possa essere una valutazione della vita nel «mondo virtuale» alla luce del pensiero dei Padri. Semplificando si può dire che il prof. Lugaresi equipari la realtà virtuale agli spettacoli.

Operata questa equiparazione, ciò che i Padri hanno scritto contro gli spettacoli sembra si possa attribuire alla realtà virtuale. Si precisa che la motivazione della condanna non era e non è, allora come ora, dovuta al loro contenuto, ma alla loro “ratio veritatis”, il loro criterio di verità.

Che questa riflessione nella odierna società dello spettacolo sia molto interessante è fuori di dubbio. Tuttavia resta tutta da verificare se quella equiparazione tra spettacolo e realtà virtuale sia corretta e non rappresenti invece un corto circuito troppo veloce.

L’articolo si apre con la citazione del Messaggio di Benedetto XVI per la 45a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali ma proprio nel passaggio in cui il Papa esprime una cautela importante, la quale però andrebbe inquadrata meglio nel contesto del messaggio che è di ben più ampio respiro, specialmente lì dove afferma che, «se usate saggiamente», «le nuove tecnologie possono contribuire a soddisfare il desiderio di senso, di verità e di unità che rimane l’aspirazione più profonda dell’essere umano». In ogni caso il prof. Lugaresi offre più di uno spunto di riflessione che è bene cogliere e approfondire.

I padri della Chiesa fra teatro e internet

di Leonardo Lugaresi

Il messaggio del Santo Padre per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali reso noto il 24 gennaio scorso attira la nostra attenzione sui problemi posti da “alcuni limiti tipici della comunicazione digitale: la parzialità dell’interazione, la tendenza a comunicare solo alcune parti del proprio mondo interiore, il rischio di cadere in una sorta di costruzione dell’immagine di sé, che può indulgere all’autocompiacimento”. Si tratta di fenomeni di vitale importanza, poiché il coinvolgimento sempre maggiore dell’esistenza di tante persone nel mondo virtuale di internet pone ormai in modo del tutto nuovo “la questione non solo della correttezza del proprio agire, ma anche dell’autenticità del proprio essere”.

Tuttavia, se le circostanze con cui i cristiani devono misurarsi, nella dimensione sempre più ampia e pervasiva del mondo virtuale della Rete, rappresentano una sfida senza precedenti, le parole di Benedetto XVI ci ricordano anche che la questione di fondo è sempre la stessa: quella dell’autenticità dell’esperienza umana, cioè in definitiva quella dell’identità.
L’identità umana, infatti, non si dà mai come qualcosa di assoluto, quasi fosse una sorta di monade che può prescindere dal rapporto con gli altri, ma vive sempre in una rete di relazioni, e soprattutto di relazioni “amicali”, di fronte alle quali bisogna continuamente prendere posizione, raccogliendo la sfida “dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio “profilo” pubblico”.

Ora, è vero che anche in quello che possiamo chiamare il “primo mondo”, cioè quello dell’esistenza ordinaria, fatto di rapporti diretti e di incontri faccia a faccia con gli altri uomini, ciascuno di noi, per rispondere alla propria esigenza di autenticità, deve tener conto del complesso meccanismo dei ruoli che la “vita quotidiana come rappresentazione” (come recita il titolo di un libro ormai classico del sociologo Erving Goffman) ci assegna e in un certo senso ci impone; ma è soprattutto nel “secondo mondo”, quello virtuale, che la finzione – nel senso etimologico, da fictio – cioè la possibilità per chiunque di plasmare a proprio piacimento una o più identità con cui rapportarsi con gli altri, si dilata fino all’estremo, rendendo quanto mai insidioso il cammino verso l’autenticità dell’esperienza di sé. Nella sin troppo facile moltiplicazione degli avatar e dei nicknames, “maschere” con cui il nostro io gioca a rimpiattino nei mille e mille contatti che la Rete rende possibili, non rischiamo di perdere il senso della nostra vera identità?

E se pensiamo ai social network in cui molti, soprattutto giovani, ormai trascorrono una parte considerevole del loro tempo, gli “amici”, con cui, magari da un capo all’altro del mondo, entriamo in un rapporto che a volte può sembrarci più ricco e umanamente rilevante di quello che abbiamo col vicino di casa o con il collega di lavoro, saranno persone reali o personae nel senso di maschere, attori di una rappresentazione che va scena nello spazio virtuale del Web?

Posta così la questione, è interessante osservare che il richiamo del Papa, pur riferendosi a un fenomeno completamente nuovo, presenta delle significative analogie con una problematica antica, su cui la riflessione critica dei Padri della Chiesa si è esercitata in modo magistrale, e dalla quale può dunque essere utile riprendere qualche spunto, per una più profonda comprensione di questo insegnamento di Benedetto XVI. I Padri non hanno ovviamente conosciuto internet, ma il “mondo virtuale” con cui hanno dovuto fare i conti era per loro costituito – in una “società dello spettacolo”, per dirla con Debord, quale in larga misura era quella greco-romana di età imperiale – dalla dimensione del ludus, cioè della rappresentazione scenica e più ampiamente di quella teatralità che invadeva tanti aspetti della vita civile tardoantica, anche al di fuori delle mura di teatri, anfiteatri e circhi e delle pur numerose festività del calendario. La condanna degli spettacoli, così decisa e senza sfumature nella Chiesa antica, non è infatti motivata, in ultima istanza, dai loro contenuti idolatrici o immorali, come spesso si continua a ripetere, ma da una profonda preoccupazione per la minaccia a quella che Tertulliano, nel suo De spectaculis, chiama la ratio veritatis, il criterio della verità.

Quella degli spettacoli, infatti, si presentava agli occhi dei Padri come una realtà profondamente ambivalente, in cui il vero e il falso si confondevano, sino a mettere in crisi la stessa validità epistemologica di tale opposizione: basti pensare al fatto che l’attore, nell’atto di interpretare un personaggio, è “vero” proprio nel suo essere falso, in quanto è e al tempo stesso non è il personaggio che rappresenta.
La sua capacità di trasformarsi, superando tutti i limiti “normali” posti dalle distinzioni di età, di genere, di status, per cui lo stesso individuo può essere a seconda dei momenti uomo e donna, giovane e vecchio, re e schiavo, appare quindi come una pericolosa minaccia all’identità naturale dell’uomo: come se l’ombra di Proteo si levasse ad oscurare il volto di Adamo.
Il tema della critica all’ambivalenza della rappresentazione è di matrice platonica, ma conosce nel cristianesimo un decisivo approfondimento: l’identità che viene minacciata, infatti, è sentita come identità creaturale, in quanto nella natura di ciascun essere umano si riflette l’immagine originaria che Dio vi ha impresso.

Il pensiero patristico riconosce perciò, in questo stravolgimento della realtà naturale operato dalla fictio spettacolare e nella costruzione di pseudorealtà tanto capaci di suscitare passioni ed emozioni negli spettatori quanto prive di consistenza ontologica, la mano del diavolo, cioè di colui che è per definizione il “cattivo imitatore” di Dio, la simia Dei che, incapace di creare, può solo adulterare la natura creata da Dio. Tertulliano parla, in proposito, esplicitamente del diavolo come aemulator e interpolator dell’opera divina. Quando il Papa solleva con franchezza la questione dell’autenticità dell’amicizia nel mondo virtuale: “chi è il mio prossimo in questo nuovo mondo? Esiste il pericolo di essere meno presenti verso chi incontriamo nella nostra vita quotidiana ordinaria? Esiste il rischio di essere più distratti, perché la nostra attenzione è frammentata e assorta in un mondo “differente” rispetto a quello in cui viviamo?” si avverte, nelle sue parole, l’eco di una profonda riflessione patristica.
In una pagina famosa delle Confessioni (3, 2), Agostino, ricordando la sua esperienza giovanile di appassionato frequentatore del teatro, nota acutamente come agli spettatori piaccia soffrire contemplando sulla scena vicende dolorose e tragiche che dovrebbero suscitare misericordia se le incontrassero nella vita reale, e si chiede “quale sia, in definitiva la misericordia che si prova nei riguardi delle finzioni del teatro. Lo spettatore, infatti, non è sollecitato a soccorrere, ma soltanto invitato a dolersi, e si apprezza tanto più l’attore di quelle scene quanto più si soffre”.

Questo passo meriterebbe una approfondita esegesi, qui evidentemente impossibile, ma il punto essenziale è molto chiaro: per Agostino, una relazione veramente umana si realizza solo là dove c’è responsabilità. L’altro, nel momento in cui lo incontro, mi rende in qualche modo responsabile, nel senso chiarito in modo perfetto la parabola del buon samaritano, con la quale Gesù risponde alla stessa domanda che Benedetto XVI, non a caso, ci ripropone con riferimento al mondo virtuale: “Chi è il mio prossimo?”. La relazione di prossimità, che è la sola veramente umana, implica sempre l’elemento della responsabilità, nel senso che l’altro con la sua stessa esistenza mi interpella, costituisce per me una sfida a cui devo rispondere.

Agostino nega appunto che questo possa avvenire nella pseudorelazione tra lo spettatore e l’attore, e certo non possiamo che dargli ragione, se applichiamo la sua analisi alla televisione, il mezzo che per eccellenza ci mette in una posizione di “falsa vicinanza” alla realtà, dove vediamo tutto ma da spettatori completamente passivi e deresponsabilizzati.
Internet, si dice, è un’altra cosa e anzi proprio l’interazione capillare e diffusa, con la possibilità per ogni utente di essere soggetto attivo nella rete comunicativa entro cui si inserisce, sembra essere la sua caratteristica più innovativa e seducente. C’è però una condizione imprescindibile perché ciò avvenga, ed è l’impegno per (e con) la verità. “La verità che è Cristo”, ci ricorda il Papa. “In ultima analisi è la risposta piena e autentica a quel desiderio umano di relazione, di comunità e di senso che emerge anche nella partecipazione massiccia ai vari social network”.

Ma l’impegno con la verità esige continuità di attenzione, concretezza, concentrazione su ciò che è essenziale. Entra qui in gioco un altro fattore di ambivalenza tipico del mondo virtuale: l’enorme molteplicità degli spunti di interesse, delle occasioni, delle attrazioni e la straordinaria facilità dei nessi che si possono stabilire con i campi più diversi dell’esperienza umana – in una dimensione che sembra annullare gli ostacoli posti dal tempo e dallo spazio nel mondo reale – sono sì una grande ricchezza, ma anche un potentissimo stimolo alla distrazione, anzi alla dispersione dell’io dal “dentro” al “fuori” di sé (secondo una dinamica psicologica ben nota a ogni navigatore nella Rete, quando si accorge di aver perso, di link in link, ore preziose, ma forse mai tanto lucidamente analizzata come da Agostino).

È quella malattia dello spirito che il pensiero antico aveva diagnosticato come polypragmosyne, curiositas, e sulla quale – nell’ambito della polemica contro gli spettacoli – i Padri hanno pure detto cose memorabili. Ci sarebbe qui un ulteriore spunto di riflessione che non possiamo sviluppare: basti ricordare la formula pregnante con cui Tertulliano (De praescriptione haereticorum, 7,12) indica la novità della posizione cristiana: nobis curiositate opus non est post Christum Iesum nec inquisitione post evangelium. Non c’è più spazio per la curiositas dopo l’incontro con la Verità, né abbiamo bisogno di Google per sapere chi siamo. L’antica condanna cristiana del teatro non è certo riproponibile oggi, né tantomeno la Chiesa vuole prendere le distanze da internet, a cui anzi guarda con sincera simpatia, ma alcune delle ragioni che allora sostennero, con grande forza di pensiero, quel giudizio meritano di essere oggetto anche oggi della nostra riflessione, per aiutarci ad incarnare quello “stile cristiano di presenza anche nel mondo digitale” che il Papa auspica.

(© L’Osservatore Romano – 16 febbraio 2011)

  1. Leonardo Lugaresi says:

    Gentile p.Spadaro, la ringrazio per l’attenzione riservata al mio articolo. Condivido la sua cautela e il suo distinguo, ma ci tengo a dire che nemmeno io propongo una equiparazione del mondo virtuale allo spettacolo. Ho solo provato a intrecciare (in modo inevitabilmente superficiale) due temi: uno è quello della responsabilità e l’altro è quello della curiositas. Pur con le loro evidenti differenze, il “mondo virtuale” della rete e quello “ludico” degli spettacoli, mi pare che sfidino, da lati diversi, il cristianesimo sullo stesso punto essenziale, la responsabilità di ogni uomo nei riguardi della Verità, che li coinvolge entrambi. Il cristianesimo, infatti, elimina alla radice la possibilità di essere “spettatori” e istituisce una sorta di “responsabilità dello sguardo” (il levita e il sacerdote come avranno guardato l’uomo malmenato dai briganti sul ciglio della strada? E che dire di Mt 5,28?). Quanto all’essere “attori”, o piuttosto “agonisti”, il discorso, come si vede già in Paolo, è ben diverso, ma in questo caso si “recita” su una scena (quella del Theatrum mundi) che è, se così posso esprimermi, resa vera dallo sguardo di Dio e dove ciascuno “ci mette la faccia”.
    Come stanno le cose nel mondo virtuale? Questa è una bella domanda.
    Con molta stima
    L.Lugaresi

  2. antoniospadaro says:

    Caro prof. Lugaresi, riesco a scriverle solamente adesso con un po’ di ritardo. Innanzitutto grazie per questo suo commento. Come avrà capito anche dalla ripresa in rete del suo pezzo, la sua riflessione ha colpito un centro nevralgico della discussione. Il suo volume “Il teatro di Dio” è un testo fondamentale e la sua applicazione alla realtà virtuale mi ha mosso una serie di considerazioni che proverò, appena possibile, a trascrivere. Dunque innanzitutto grazie. Personalmente amo i contributi culturali che mi fanno pensare, al di là del fatto che io nel merito li condivida o meno.
    Anch’io nella mia presentazione del suo pezzo ho un po’ semplificato il discorso, nel quale comunque mi pare che il filo conduttore sia proprio quello che pare teso tra gli spettacoli e la realtà virtuale. Il loro collegamento, sì, non la loro equiparazione. Ma sta proprio qui il “nodo” da districare a mio avviso. E si tratta, come bene lei afferma, di una “sfida”. Lei afferma che il cristianesimo elimina la possibilità di essere “spettatori”. Io condivido il senso di questa affermazione, ma preferirei dire che abilita una maniera diversa di esserlo, inaugurando una modalità “interattiva” e non semplicemente “immersiva”.
    Io “nasco” critico letterario e a questi argomenti ho dedicato un mio libro più teorico (Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura) che si occupa del “lettore”. Penso dunque che la riflessione sulla realtà virtuale in realtà possa addirittura riportare il concetto di “spettacolo” in un ambito più cristiano almeno in radice. Il problema “vero” resta quello della “ratio veritatis”.
    Probabilmente ciò che siamo chiamati a superare è lo stesso concetto di “virtuale” e la radicale differenza posta tra virtuale e reale. Questa schizofrenia relega il virtuale nel campo della “fictio” (fiction -> finto) e il reale in quello della “veritas” (realty-> vero). Se si andrà avanti così l’unico risultato sarà il dilagare della vita umana intesa come “reality show”. Si può fare molto, molto di più…
    Grazie infinite del suo commento nel mio blog ma soprattutto degli stimoli “forti” e “urgenti” che mi ha offerto. Spero di rimanere in contatto con lei.
    Con sincera stima
    Antonio Spadaro

  3. Fernando Ambrosio says:

    Sono un cattolico, vorrei chiedere a padre Spadaro, perchè la teologia, non si occupa delle cose serie, di quelle cose che portano l’uomo sulla via tracciata da Cristo. La teologia si perde nei vicoli della semantica, perdendo di vista il senso del messaggio di Cristo. Migliaia di persone abbandonano la giusta via per intraprendere una strada sbagliata (evangelici, T.d.G……….). Una strada tracciata da altri uomini, che con Cristo non hanno nulla da spartire. Gesù al contrario di ciò che vogliono far credere tanti teologi, è stato di una semplicità disarmante, ecco il perchè delle parabole, o di discepoli che erano pescatori, prostitute… Gesù parlava in parabole per far capire il suo messaggio anche alle persone senza istruzione. Ecco perchè non si capisce il perchè di queste parole enigmatiche, parole che per A sono blu, B sono rosse, C sono bianche. Un mio amico ateo giustamente faceva una riflessione, Gesù ha portato discordia tra i cristiani, poteva evitare di parlare in modo enigmatico, detto, non detto. Ma in realtà, sono gli altri che vogliono trovare il loro modo di concepire la vita in quelle parole. Io nel mio piccolo, non avendo la giusta istruzione non studio teologia, ma la storia. La storia mi ha aiutato ha mortificare (anche se non è un espressione cristiana), tanti evangelici, T.d.G. specie sulla eucarestia. Vengo alla domanda.
    Padre perchè devo essere io a dire, a far conoscere che un idiota olandese Cornelius Heon riposizionando una libreria, lesse un libro di un umanista, e riadattò a modo suo il pensiero di questo autore sulla eucarestia, pensiero che portò a Zwingli, uomo che dimenticando il detto di Cristo che chi di spada ferisce di spada perisce, faceva guerre a destra ed a sinistra, dove trovò la giusta morte profetizzata da Gesù. Lei sà che tante persone che diventano evangelici, ritengono la eucarestia un simbolo, disprezzano la croce………………………….chi sono i preposti, i precettati cattolici, che devono far si che la verità venga ristabilita .
    Un evangelico mi scriveva: Noi non facciamo il segno della croce, perchè i primi cristiani non lo facevano, ma quando ha letto Tertulliano III secolo, è rimasto perplesso, Altri mi scrivevano che la eucarestia è un simbolo, ma quando hanno letto Ignazio di Antiochia 106, Giustino da Nablus 155, Ireneo da Lione, Ambrogio, Tertulliano………………………………., ma specialmente quando ha letto chi era e cosa aveva fatto Cornelius Heon, Zwingli sono andati in crisi.
    Quindi perchè non usate la vostra scienza per dire qualè la vera via cristiana.
    Partendo dalle cose semplici, capisco la semantica con gli ortodossi, ma con chi:
    odia la croce
    eucarestia simbolo
    Pater Nostro solo preghiera modello
    Sola scrittura
    Spero in una risposta
    Salve Fernando

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